the mandalorian

Si può dire tutto – e si è già praticamente detto – sulla serie spin-off più seguita del momento, ossia The Mandalorian (Jon Favreau, 2019-), le cui vicende, incarnate dai protagonisti Din Djarin/Mando (Pedro Pascal) e Grogu (ribattezzato illegittimamente baby Yoda), hanno nuovamente ispirato le fervide fantasie e le speranze più audaci degli spettatori occasionali e dei fan di vecchia data di Star Wars. Ciò che si è sottolineato poco, però, è come abbiano fatto l’ideatore e il suo entourage a rinfrescare uno degli universi più sgualciti e infeltriti della cinematografia mondiale, quando a nulla sembravano essere serviti i rammendi certosini e i tentativi di restyling conseguiti dalla nuova, ambiziosa e costosissima trilogia.

Qualcosa sembrava usurato al tal punto da rendere il canovaccio ormai irrecuperabile, utile da sventolare come una bandiera riconoscibile, ma impossibile da rendere nuovamente candido e avvolgente come una coperta di cachemire. Il segreto sembra risiedere nella più basica delle combinazioni in grado di conferire un’allure immediata: less is more e cura.

the mandalorian 2

Per quanto riguarda il mantra del less is more credo che ci sia poco da aggiungere, è ovvio che quando una cosa è chiara, semplice e pulita, è anche elegante e facilmente apprezzabile. Selezionare i pochi e irriducibili motivi chiave di Star Wars per farne un meccanismo solido e funzionale – limitando i personaggi complessi e focalizzandosi su di loro, ottimizzando le atmosfere e razionalizzando i codici di genere (western e fantascienza), confidando in una narrazione di tipo classico con pochi ma energici turning point – non poteva che dare i suoi frutti.

Per quanto riguarda la cura, invece, la questione appare paradossalmente più complicata, specie se si guarda alla produzione contemporanea ormai votata alla fabbricazione industriale e al binge watching sfrenato. La cura non è solo quella dedicata alla confezione, richiesta e fissata una tantum, bensì ai contenuti (vari e fluttuanti), per i quali non funziona la stessa strategia realizzativa in blocco e in serie, strategia che sempre più spesso sta rendendo i prodotti Disney rigidi e interscambiabili fra loro. La cura riservata alla natura dei personaggi, alla loro complessità e alle loro relazioni produce diversificazione emotiva, varietà morale e gerarchie affettive che restituiscono di una storia l’autenticità dei sentimenti oltre la pantomima.

the mandalorian 2

The Mandalorian, sin dalla prima stagione, pare aver fatto di questa “cura” il tema principale della sua narrazione, una cura dapprima riservata all’esaltazione dei valori materiali ed etici (le divise, i mezzi e le armi e il senso di appartenenza, che nell’universo di Star Wars rappresentano connotati distintivi per ogni razza o fazione), per poi maturare nei rapporti sancendo i legami, e quindi lo scopo e la credibilità delle azioni volti a preservarli. Se nella recente trilogia la cura che definiva i personaggi e le loro relazioni era carente, scarso si è rivelato il valore teleologico di ogni missione, di ogni storia, e dell’universo narrativo tout court. In The Mandalorian la scrittura, rinvigorita da un salubre approfondimento introspettivo, ha senz’altro giovato alla veridicità delle gesta e alla maestosità dell’epica, tanto da raggiungere – e avere l’onore di congiungersi a – la trilogia originale, sfruttando peraltro i “punti ciechi” della nuova trilogia.

Dopotutto Grogu è il catalizzatore della trasformazione di Mando da freddo cacciatore di taglie che vive giorno per giorno, a figura paterna amorevole e premurosa, mentre il viaggio che affrontano insieme, palesato nel tenero e doloroso finale, altro non è che un viaggio alla scoperta della forza che origina dalla fiducia in sé stessi e dall’amore per gli altri. Da un vagare senza meta e senza identità, Mando e Grogu scoprono il loro vero volto e trovano la propria via. Il punto è che ora dovranno imboccarla, e non sarà facile, soprattutto per gli sceneggiatori.



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